Gira sul web da anni un’immagine che vorrebbe rappresentare un errore di attribuzione: ciò che percepiamo, pur se oggettivo dal nostro punto di vista, non è la realtà o la verità delle cose. Ma nell’immagine spesso c’è un fraintendimento. Pure grosso. Ora vediamo velocemente il perché.
Nell’immagine si vede appunto un cilindro che proietta su due pareti due ombre differenti: su una la sua sezione circolare, su un’altra quella quadrata. L’osservatore che osservasse solo il muro di sinistra (o che vedesse il cilindro da quella posizione) vedrebbe un quadrato e, questa è l’applicazione metaforica, si troverebbe a discutere con l’osservatore posizionato sul muro di destra, il quale, a ragione, continuerebbe a sostenere che l’oggetto davanti ad entrambi non è un quadrato, bensì un cerchio.

Il messaggio è chiaro, la metafora anche e la morale è quella che ognuno di noi ha un suo punto di vista ma muovendoci dalla nostra posizione, potremmo comprendere anche quello dell’altro e giungere ad una verità più complessa che dà torto e ragione ad entrambi.
Ma è così semplice?
1° errore: adottiamo sempre un punto di vista
L’immagine nel suo complesso viene spesso condivisa con una sorta di implicito: “io conosco la verità, mo’ te la spiego”. Il che, superbia a parte, fa intendere che una persona possa giungere a conoscere la verità. Cioè che la verità sia accessibile una volta spostatisi dalla propria posizione. La metafora inganna: si ritiene che una persona guardi il cilindro da una posizione “parziale” (quella ad esempio del muro di sinistra) e poi spostandosi e muovendosi (quindi attraverso la conoscenza) possa accedere a una posizione che le permetta di osservare la realtà nella sua interezza e capire di aver avuto davanti a sé (in questo caso) un cilindro.
Ma secondo la stessa logica dell’immagine, una volta che ci spostiamo, giungeremo sempre in un’altra posizione che ci farà percepire le cose da un punto di vista parziale. Restando in metafora: siamo sempre spalle al muro.
Illusioni di realtà
Già Platone sosteneva che viviamo in un mondo di ombre, che nulla di ciò che percepiamo è “vero” e che colui che vedesse la “verità” verrebbe preso per pazzo dalla maggioranza degli altri uomini incatenati alla visione delle ombre. Forse a Platone la metafora del cilindro e delle ombre sarebbe piaciuta di più se le due pareti fossero state due teli e noi fossimo dall’altra parte. Un po’ come avviene per le ombre cinesi, vedremmo solo la forma di un’ombra su un telo senza poter accedere a cosa vi sia dietro a quel telo.
Mi viene in mente che il vecchio e scorbutico Schopenhauer, colto dalla sua letterale e contrastante voglia di vivere, si sarebbe scagliato contro quel velo per squarciarlo e andare ad abbracciare il cilindro.
Invece per Kant il cilindro sarebbe stato irraggiungibile. Per lui gli oggetti delle nostre percezioni sono per noi inarrivabili e il mondo umano ha a che fare con i fenomeni prodotti dall’interazione tra tali oggetti e le nostre categorie mentali. Attenzione: le cose rispetto a Platone qui cambiano, non percepiamo le ombre e basta, ma ognuno di noi ci mette qualcosa di suo. Le reinterpretiamo, le associamo alle nostre esperienze. Capite bene che la metafora del cilindro e delle ombre non calza bene… Forse per rendere meglio il concetto possiamo pensare alle nuvole: ricordate quei giochi in cui si associa un animale o un oggetto alla forma di una nuvola? Ecco: ognuno ci può vedere qualcosa di diverso anche dalla stessa posizione e con la stessa proiezione retinica. La vera forma della nuvola, l’esatta posizione di tutte le molecole che la compongono, è indefinibile e forse nemmeno interessa i contesti umani.
L’abuso di Paul Watzlawick
In psicologia, una posizione analoga a quella di Kant viene assunta dal costruttivismo, non a caso in molte condivisioni dell’immagine del cilindro viene citata una frase dell’introduzione del libro “La realtà della realtà” di Paul Watzlawick:
l’illusione più pericolosa è che esista soltanto un’unica realtà
Lo psicologo austriaco Watzlawick viene considerato uno dei massimi esponenti del costruttivismo, una posizione epistemologica in cui (semplificando) si sostiene che la realtà a cui possiamo attingere è soggettiva. E fin qui, pare essere coerente con l’immagine, ma lo è solo con le ombre, non viene considerata l’esistenza del cilindro.
Anzi, lo stesso psicologo sottolinea il pericolo di pensare che esista un’unica realtà e questo vale sia nel considerare come vera l’ombra che il cilindro.
Watzlawick, parafrasando la famosa frase di Epitteto, dice che «chi viene a cercare aiuto da noi [psicoterapeuti] soffre in qualche maniera del suo rapporto con il mondo» e che tale sofferenza esplicita «la contraddizione irrisolta tra il modo in cui le cose sono e come, secondo la sua immagine del mondo, dovrebbero essere» (corsivo mio).
Quindi, se volete usare un’immagine citando Watzlawick, non usatene una in cui si veda la “verità”.

Mentre scrivo mi vengono in mente 3 esempi concreti dei rischi di pensare che vi sia un’unica realtà (oltre alle numerose guerre monoteiste):
- Te la prendi con il partner: quando pensi che l’unica realtà sia la tua e che l’altro non capisca come ci si deve comportare in quella situazione. O ti senti ferito/a da una sua espressione (omettendo tutte le tue di espressioni o attribuendo a lui/lei la responsabilità delle stesse)
- Te la prendi con il mondo: quando il mondo non rispetta la tua visione di come dovrebbero andare le cose
- Te la prendi con te: quando ritiene che ci sia un senso nella vita (soprattutto nella tua) ma non riesci a raggiungerlo. Vorresti essere come il vecchio Schopenhauer e squarciare il velo, ma non sai come fare e te ne attribuisci la colpa.
La verità non è argomento della psicologia
Quel che Watzlawick stesso fa intendere (e che io trovo ben definito all’interno del modello Interazionista) è che la psicologia non si occupi di ontologia o metafisica. Il compito dello psicologo, soprattutto nel suo agire utile per il benessere o miglioramento, non è quello di definire cosa sia la “verità” delle cose e nemmeno postularne una realtà ultima. Watzlawick non propone di interessarsi alle realtà di prim’ordine (il cilindro), nemmeno a quelle di secondo (le ombre), ma delinea il campo della comunicazione pragmatica e dell’interazione terapeutica alle realtà di terzo e quart’ordine (forzando le cose: le chiacchiere che nascono dal gioco “assegna un animale alla nuvola”). In termini semplici: quando hai a che fare con i problemi delle persone, hai a che fare con i loro accrocchi di rielaborazioni su rielaborazioni di qualche esperienza percettiva.
La verità o la realtà non è accessibile, né rappresentabile (tantomeno da un cilindro) e la domanda stessa di cosa sia reale e cosa sia il vero rientra solo negli accrocchi umani. La risposta a tale domanda non si trova all’interno del campo umano (tanto meno è di competenza dello psicologo). Watzlawick stesso nell’ultima pagina della “Pragmatica della comunicazione umana” chiude citando le ultime frasi del Tractatus di Wittgenstein:
«Per una risposta che non si può esprimere, nemmeno si può formulare la domanda. L’enigma non c’è…
Noi sentiamo che se tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati. Certo, non rimane allora nessuna domanda; e questa è appunto la risposta.
Il problema della vita si risolve quando svanisce. (Non è questa la ragione perché gli uomini, cui, dopo lungo dubitare, il senso della vita divenne chiaro, non seppero dire in che consistesse questo senso?).
C’è veramente l’inesprimibile. Si mostra, è ciò che è mistico…
Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere.»
Bibliografia
- Paul Watzlawick, Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica. (1978), Milano, Feltrinelli, 1980.
- Watzlawick, P.-Beavin, J.H.-Jackson, D.D., Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi. (1967), Roma, Astrolabio, 1971.
- Paul Watzlawick, La realtà della realtà: comunicazione, disinformazione, confusione. (1976), Roma, Astrolabio, 1976
- Ludwing Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus. (1921), trad. it. a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino, 1989.
PS: se vuoi vedere un video di Watzlawick lo trovi qui con qualche appunto.