Di quella volta che Heinz Von Foerster mi diede uno scappellotto.
Vi racconterò di quella volta che von Foerster mi diede uno scappellotto proprio tra capo e collo.

Era il 2005 ed eravamo al solito Bar della Briscola, dove Heinz von Foerster e i suoi amici si trovavano abitualmente. Visto che gli altri tardavano ad arrivare, von Foerster se ne stava da solo a fissare un bicchiere di chinotto oramai quasi finito. Io ero qualche tavolo più in là e stringevo tra le mani il libro “Sistemi che osservano”. Presi coraggio e mi avvicinai a lui con chiaro intento di fargli una domanda che mi frullava da un po’.
Appena mi vide arrivare, bevve l’ultimo dito di chinotto, sbatté il bicchiere sul tavolo e si alzò esclamando:
«Signori e signori questo è un simposio straordinario e ne sto gustando ogni momento. Avverto tuttavia una stonatura, ed è il fatto che Gregory Bateson non sia qui fra noi.»
La barista e i pochi astanti risero abituati, io mi misi in piedi al bordo del tavolo e dissi: «Professor von Foerster, Gregory Bateson oggi non verrà per la vostra partita: è alle prese con sua figlia» Puntualizzando subito imbarazzato «Con la sua “propria” figlia intendo… Posso approfittare per farle una domanda?» Balbettai, sfogliando nervosamente il libro alla ricerca di una pagina con degli appunti che non trovavo.
Lui annuì e io continuai cercando di riempire il silenzio: «Heinz von Foerster, i suoi libri sono pieni di riferimenti a matematica, fisica, filosofia, biologia e psicologia»
«Scusi giovinotto, non rammento di aver parlato poi così tanto direttamente di psicologia»
«Va bene. Tra i molti suoi testi a noi psicologi piace molto questa raccolta di interventi intitolata “Sistemi che osservano”»
«La traduzione in italiano non rende bene l’idea. Però. Se posso dire la mia»
«Beh, guardi, non mi pare male, per i film succede anche di peggio. Non capisco perché» Mi sedetti «Ma veniamo al nocciolo: in Sistemi che Osservano c’è un suo favoloso intervento allo Standford International Symposium del settembre dell’81»
«Mi perdoni, ma perché ora dice International, e prima non ha detto Observing Systems? Mi sa che non ha ben chiaro quanto il linguaggio usato influenzi le cose»
«Certo che è un precisino, la facevo più simpatico dai libri»
«Dipende molto da chi ho davanti, lì avevo Varela, Watzlawick, Neumann, Bateson, Margareth Mead» Poi fece una pausa e aggiunse bonario «Con lei ho più responsabilità e non posso permettere rischiosi fraintendimenti»
«Mhhh, all’inizio pensavo che mi stesse offendendo. Facciamo che la ringrazio e andiamo avanti. Lei del resto è abbastanza abile a rigirare la frittata, mi pare»
«Che intende dire?»

«Che alla fine di quell’intervento dell’81, in cui parla di Disordine/Ordine, Karl Pribram le fa una domanda che è riassumibile in: se è vero che inventiamo tutto noi, come facciamo a sorprenderci di alcuni avvenimenti? Di quando cioè succedono cose che non ci aspettavamo? E lei risponde girando appunto la frittata: dice che lui, Pribram, è dotato di gran inventiva tanto da inventarsi persino le occasioni di sorpresa. Ecco. A me pare che questa sia una risposta sommaria e lacunosa, ma che lei la faccia scorrer via elogiando Pribram davanti a tutti e poi distraendoli con il bell’aneddoto di Castaneda e Don Juan»
«Quindi?»
«Quindi: credo che sia fondamentale per i concetti di cambiamento e innovazione che lei cerchi una dimostrazione a quanto sostenuto. Come si chiamano quei momenti di “sospensione della spiegazione“? Di mancanza di percezione o di percezione innovativa?
«Uhm, giustamente lei è uno psicoterapeuta ed è interessato a descrivere quei momenti in cui una persona cambia il proprio sistema reinventandosi»
«Esatto, ma resti pure sul teorico, perché per le organizzazioni è lo stesso, e la parola “sistema” mi permette di considerarle entrambe»
«Devo rispondere facendo finta di essere ancora nell’81 e non aggiungendo nuove invenzioni teoriche o cose che all’epoca non sapessi?»
«Grazie, anche perché riesco ad inventare poche altre cose al momento… ah!» aggiunsi per sicurezza «E tenga conto che Gregory Bateson non è qui tra noi»
«Ehm… Ok le evito figuracce» Disse scoppiando in una delle sue risate, poi si fece artificiosamente serioso «Allora la riflessione di mio zio dell’uso del linguaggio mi torna utile»
«Santo cielo! Suo zio Wittgenstein?!?»
«Sì! Non posso far finta che nell’81 non conoscessi mio zio!»
«Va bene, ma sia semplicistico, al limite del banale. Lo dico per chi legge, se fosse per me…»
«Taci.» Mi fulminò, ma poi nuovamente sorrise «Direbbe lo zio. Se non sai taci.» e così mi rispose «Usando il linguaggio, quell’insieme di significati e di simbolismi di cui è infarcito perde la sua netta definizione e in alcuni momenti lascia passare significati o simboli differenti»

«Mi perdoni: è un poco tautologico. Se non approfondisce il “come” non è altro che un’altra descrizione del 2° e del 3° passo del suo ciclo computazionale che si aggiunge agli esempi che cita nello stesso intervento. Quelli della Macchina di Turing (che valuta il suo stato interno) e del Diavolo di Maxwell (che valuta la velocità delle molecole). Solo che questa volta usiamo la metafora del linguaggio che cambia nell’uso. Vorrei sapere come avviene il cambiamento in un qualsiasi processo computazionale verso un altro stadio non previsto. Senza aspettative, senza spiegazioni, ma appunto sorprendendoci.»
«Cervelli in interazione.» Disse come se fosse una cosa banale, come se gli avessi chiesto l’ora e avesse risposto le 12 e un quarto. Poi per fortuna continuò. «Nel senso che fisiologicamente siamo differenti, così come sono differenti tutti i nostri processi informativi e, sebbene parliamo la stessa lingua e riteniamo di intenderci disquisendo sullo stesso argomento, durante il dialogo micro interferenze di significato schiudono le porte a sorprese e scoperte.»
«Molto bello, anche se non mi pare una sua idea, ma …»
«Beh, per il concetto di interazione ovviamente no, ma che l’ordine sia nell’osservatore e che l’osservatore talvolta debba fare i conti con il rumore di fondo – che per forza avanza dalle sue costruzioni – e che il volume di questo rumore si alzi durante l’interazione permettendo cambiamenti… Ritengo siano suggestioni anche mie. O no?»
«Ah. Certo. Ora mi è più chiaro»
La barista sollevò lo sguardo dallo strofinaccio che usava per asciugare i bicchieri e mi guardò come per dire “Te l’ha fatta, giovinotto, eh?”
Ma a me pareva che ancora qualcosa non quadrasse e rilanciai: «Però Pribram nel suo laboratorio è solo!»
E Heinz disse: «Ma nella sua mente ha un dialogo con infinite persone: colleghi, collaboratori, inservienti del campus, ristoratori, amici, e tutti gli altri Pribram che può ospitare»
«Quindi la sorpresa non è solo assenza di spiegazione (e aspettative), ma è per lo più compresenza di innumerevoli spiegazioni differenti (innumerevoli aspettative differenti). Inventare è proporzionale al numero di possibilità accettate che un qualcosa sia spiegato.»
Poi presi uno di quei tovagliolini da bar e cominciai a scarabocchiare alcune formule.

«Se il numero di descrizioni D della stessa configurazione C tende all’infinito, la possibilità di invenzione è massima e, quindi, l’invenzione di D inaspettata. Nel senso che se una persona (un sistema o un’organizzazione) accoglie la possibilità di molteplici descrizioni, accoglie la possibilità in sé più che il contenuto delle descrizioni e, quindi, abbandona ogni preoccupazione di spiegazione e comprensione della novità, perché in qualche modo ne dava per certa l’esistenza.»
Feci una pausa per capire se tornavano i conti, ma poi adrenalinicamente rilancia: «Quindi lei si rivolge al presente quando dice “Agirò sempre in modo da accrescere il numero totale delle possibilità di scelta”? Il suo imperativo etico ha anche questo senso, giusto?»
«Sì anche questo. E anche altri sensi che inventerai più avanti»
E cercò di far scendere l’ultima goccia di chinotto sollevando il bicchiere. Poi con il mento alzato e la bocca aperta disse «Mi faceva piacere che ci arrivassi da solo. Ma per piacere non scrivere più formule!» Picchiò il bicchiere sul tavolo e mi diede uno scappellotto sulla nuca. E rise come un disgraziato.
Io mi ripresi. Sorrisi, ma non volevo farmi sfuggire l’idea ancora rarefatta e cercai di continuare: «Il suo imperativo etico l’avevo inteso sempre in senso strategico: come far in modo che una mossa aumenti le possibilità di scelta futura, invece il senso è proprio quello di organizzare la propria percezione. Accogliere più possibilità di descrizione per “vedere” nel presente»
Heinz sestò in silenzio per un poco «Ah, se ci fosse Gregory Bateson»
«Ci parlerebbe di differenze, persistenza, evoluzione e processi stocastici?»
«No, è che l’ultima volta si è portato via il mazzo di carte e quello del bar le ha tutte segnate»
«Va bene, ho capito. Solo l’ultima domanda poi me ne vado: Ma C rimane sempre la stessa?»
«C? La configurazione esiste solo per giustificare la sua descrizione… Cioè la nostra inventiva. Il mondo è lì per ricordarci che lo abbiamo potuto inventare, anche se poi ci si illude che si possa studiarlo.»
«Ah come vorrei che ci fosse anche il sig. Bateson per chiedergli dei nuclei di cambiamento! Secondo me è in base alle loro interazioni con il contesto che sono possibili i cambiamenti. Chissà se la struttura che connette può esser vista come un insieme di possibilità che si attivano di fronte a pronte disposizioni… Magari la pronta disposizione è una disposizione estetica»
Mi girai, e Heinz von Foerster se ne era già scappato. Con il mio tovagliolino stropicciato e lasciandomi il chinotto da pagare.
Io lo misi sul conto di Pribram.
Chissà che sorpresa. 🙂
Oggi al Bar della Briscola ho lasciato due messaggi alla barista
Ovviamente il testo sopra è di pura fantasia. Risale a qualche tempo fa e ad un blocco di appunti oramai ingiallito. Mi ha fatto ancora sorridere e ricordare alcuni metodi creativi di studio. Negli anni le riflessioni si sono ampliate, e anche le domande. Così sono andato al Bar della Briscola e ho lasciato altri due messaggi, sperando che Heinz e i suoi un giorno rispondano.