Siamo sicuri che pensare alla mente come qualcosa “dentro” di noi sia utile a qualcosa?
“Guadarsi dentro” aiuta alla ricerca di se stessi?
A cosa serve conoscere i processi cerebrali per migliorarsi, gestire meglio le emozioni o riuscire a comunicare efficacemente?
La nostra essenza è veramente un qualcosa dentro di noi?
In questo articolo vedremo i rischi concreti nel pensare che tale essenza sia il nostro cervello o la nostra personalità. La mia proposta (che qui semplifica un approccio pragmatico e interazionista) è quella che sia meglio pensare alla mente come a qualcosa di fuori. È meglio pensare di essere fuori. Sì: fuori come i balconi.
Qui sotto un breve video da ascoltarsi. In fondo un riassunto con alcuni spunti.
La teoria che hai su di te a cosa ti serve?
Partiamo dalle cose che ci servono. Se vuoi comunicare meglio o gestire le tue emozioni o credere di più in te stesso e vuoi “farlo seriamente”, devi ipotizzare di lavorare o modificare qualcosa che percepisci costante: qui lo chiamo “mente”, ma se vuoi possiamo chiamarlo “carattere”, “personalità”, “io”, “coscienza di sé”, “identità”, ecc.
Se non ci fosse questo qualcosa di costante, non ci sarebbe alcun bisogno di “cambiare” o “migliorare”: basterebbe voler fare una cosa per farla (o imparare a farla). Nessun ostacolo, nessuna demotivazione, nessuna pigrizia: ti dici “non imbarazzarti” e smetti di esserlo; “inizia e mantieni una dieta” e lo fai; “sii più socievole” e lo diventi.
Sarebbe bello, ma sappiamo che non è così: c’è qualcosa di costante che da un lato ci vincola alle nostre abitudini indesiderate e da un lato ci permette di avere altre buone e utili abitudini.
È quello che, se generalmente viene chiamato mente, soggettivamente viene vissuto come io o me (e non a caso il mio corso di miglioramento si chiama Me-Lab).
Se vuoi “migliorare” in qualcosa, devi lavorare su questo qualcosa di costante, o meglio: anche se non ne sarai consapevole, userai degli strumenti e delle tecniche costruiti su una qualche teoria della mente[1].
Uno dei più grandi psicologi dello scorso secolo, Kurt Lewin, viene ricordato per questa frase
non c’è niente di più pratico di una buona teoria
Questo perché la teoria che usiamo (a volte in modo del tutto inconsapevole) ci fa vedere, pensare e agire in un certo modo e non in molti altri possibili. Una teoria è uno strumento decisamente pratico, come un cacciavite piatto è molto utile, ma solo con un certo tipo di viti e con un certo tipo di scopi.
Ma non lo dice uno scienziato alle prese con libri e laboratori universitari, infatti, anche se raramente viene riportato, la citazione non è di Lewin, ma è una frase che lo psicologo riporta e attribuisce a un imprenditore, cioè a una persona fortemente interessata agli esiti dei propri affari[2].

Torniamo a noi, diventa necessario capire se, mentre parli e usi alcuni strumenti, la teoria della mente che stai inconsapevolmente adottando ti sarà utile oppure no.
La risposta è dentro di te?
Rimaniamo sempre sull’utilità: quando pensiamo “ho delle potenzialità dentro di me che non riesco a far uscire”, che teoria della mente usiamo?
Proviamo a pensare ai rischi nel raccontarcela così.
Per questa teoria tu dentro sei di più di quello che mostri fuori, il “vero te stesso” è dentro di te.
Come fai a trovarlo? Esiste una sonda?
Mi dirai: no, uso l’introspezione.
Bene: cosa ispezioni? Ti chiudi in meditazione in qualche luogo e cosa ricerchi? Cosa fai? Che domande ti poni?
Ritieni che la serenità o l’autostima le troverai dentro te stesso?
Come dovrebbero emergere o palesarsi?
Credi che sentirai una voce che a un certo punto solennemente descriverà chi sei, come dovrai comportarti e cosa dovrai fare nella tua vita?
E ritieni che poi tu, così internamente illuminato, potrai girare per il mondo, andare a lavorare, rapportarti con gli altri con maggiore capacità e consapevolezza?
Se sì, fai attenzione: è una teoria diffusa, molto affascinante, ma utile solo in ambiti specifici e in momenti specifici.
In questa teoria non sono presenti molte delle cose che hai imparato:
per camminare non hai meditato mesi in posizione del loto per poi alzarti di slancio muovendo elegantemente piedi e gambe con il busto eretto e lo sguardo fiero. Per parlare nemmeno. Nemmeno per la matematica o per guidare l’auto o per scrivere una poesia o giocare a calcio.
Nulla di ciò che è umano lo hai acquisito nella solitudine dell’introspezione.
Semmai l’introspezione, la riflessione, la contemplazione e altre pratiche ti possono esser servite per organizzare pensieri, per placare emozioni, aver maggiore chiarezza e serenità d’animo, ma (eccetto per le connessioni con il divino) tutto per poi indirizzarti verso qualcosa che non fosse dentro di te, ma fuori di te: hai capito che era meglio lasciare il lavoro, hai sentito i tuoi sentimenti per una persona in modo più profondo, hai deciso di intraprendere un viaggio oppure hai semplicemente ottenuto uno stato d’animo più funzionale alla ripresa della vita quotidiana.
Non hai trovato il tuo vero te stesso: quando è andata bene, hai trovato il modo di fare qualcosa che ti rappresentasse nel modo in cui eri in grado di farlo. Se, dopo aver meditato decidi di scalare una montagna o costruire un’azienda, l’introspezione avrà spazzato via i dubbi, ma non ti avrà fornito gli strumenti per realizzare la tua scelta: quel “te stesso” (che scala la montagna o crea un’attività) lo troverai mentre starai attuando la decisione presa.

In sintesi: questa è una teoria che ti aiuta a togliere e a fare chiarezza per poi agire. Se la usi per “trovare” te stesso o una risposta definitiva a un tuo “perché”, continuerai a vagare nel nulla dell’insoddisfazione.
Comanda il cervello?
Fior fior di neuropsicologi (e da lì a scendere fino ai guru dei social network) ci spiegano che le nostre emozioni dipendono dall’amigdala [Per chi non lo sapesse l’amigdala è una piccola struttura posta al centro di ogni emisfero cerebrale (quindi ognuno di noi ne ha due)].
Se fai un corso sulla gestione della paura, prima o poi qualcuno tirerà fuori l’amigdala, ma non in senso letterale, anche perché non saprebbe cosa farsene. E a me pare ovvio che nessuno saprebbe cosa farsene di un’amigdala tra le mani.
Però, in quel corso sulle emozioni, ti faranno vedere dei disegni colorati con delle frecce per farti capire come funziona la tua paura.
Che teoria della mente stanno usando?
Domanda retorica: una teoria “neurologica”: la tua mente è la somma di processi cerebrale e il processo della paura coinvolge l’amigdala.
Ma a te cosa serve sentirti spiegare i meccanismi neurofisiologici correlati a un’emozione?
A due cose:
- la prima ha una funzione retorica (didattica o di marketing): come una ricerca di Yale[3] ha dimostrato, infarcire una spiegazione psicologica con riferimenti neurologici induce le persone a considerarla più “scientifica” e, dunque, “vera”. Questo favorisce pensare che quel formatore sia un “esperto” di cui potersi fidare e, quindi, applicare meglio i contenuti del suo corso o acquistare i suoi prodotti o servizi.
- La seconda, a trovare una soluzione coerente con quella teoria.
Il problema è che il tuo formatore ti parla dell’amigdala solo perché ha letto qualche libro in ordine sparso, senza inserirlo in una teoria delle mente e, soprattutto, senza pensare se quella teoria sia da te utilizzabile[4].
Perché, ricordiamocelo, se avessimo tra le mani le nostre due amigdala, noi non sapremmo cosa farci.
Per influenzare il funzionamento dell’amigdala in modo accurato abbiamo bisogno di uno strumento che agisca direttamente sulla struttura cerebrale. Solitamente di un bisturi o di un elettrodo o di un farmaco.
Li trovi utili per affrontare una paura?
Se sì, bene: alzati subito da quel corso di formazione e rivolgiti a un neurochirurgo o a un neuropsichiatra, perché sono loro gli esperti di quella teoria e di quegli strumenti.
Se ritieni che invece sia possibile influenzare il funzionamento della tua amigdala attraverso pensieri, parole e azioni, devi sapere che nessuna ricerca dimostra scientificamente come ciò possa avvenire.
Questo è facile da capire.
Possiamo misurare l’attività elettrica e la variazione del flusso sanguigno di un’area cerebrale, ma non abbiamo uno strumento per definire scientificamente cosa sia un’emozione all’esterno di una teoria psicologica. La neurologia si occupa di materia grigia, la psicologia di teorie che vanno a definire di cosa stiamo parlando.
Perché, questo ti sorprenderà, non per tutti gli psicologi la paura di un ratto di prendere una scossa dentro una gabbia metallica è paragonabile alla paura di un genitore che attende il rientro della figlia adolescente al sabato notte o alla paura di un calciatore di tirare un calcio di rigore o alla paura di morire di un anziano o a quella di essere lasciato dalla propria amata. Anche se sembrerà strano, per molti di noi, queste sono paure diverse e, oltretutto, le neuroimmagini ci dicono che coinvolgono in modo diverso quasi la totalità del cervello…
Il tuo neurochirurgo dovrebbe lavorarci parecchio.

In sintesi, questa teoria è utile solo agli esperti del settore per condurre ricerche, approfondire diagnosi differenziali e ampliare le conoscenze della neuropsicologia che, forse purtroppo, è ancora lontanissima nell’aiutare le persone usando strumenti fisici, ma può offrire degli strumenti psicologici in riferimento a piccoli ritagli della mente umana direttamente correlati ai fenomeni neurologici.
Quindi: se credi che tutto dipenda dal cervello, stai implicitamente affermando che non hai alcuno strumento operativo per modificare il suo funzionamento. A meno che tu non consideri strumenti psicologici che, però, se dovessero essere coerenti con la tua teoria, dovrebbero riguardare campi così limitati della tua esperienza che da soli non servirebbero a nulla. E quindi dovrai usare strumenti psicologici più ampi, ma lo farai alla rinfusa perché userai strumenti che non sono nati nella teoria che hai adottato fino a quel momento.
È un caos! Siamo fuori come balconi?
Uno strumento deve essere usato nel contesto adeguato. Non posso usare un cacciavite per stringere un bullone. Forse lo posso usare per piantare un chiodo, ma sicuramente avrei più successo se usassi un martello per i chiodi e il cacciavite per le viti.
Se il tuo scopo è modificare il tuo comportamento o le tue emozioni in alcuni contesti, è meglio che tu adotti degli strumenti creati appositamente per quei contesti.
Pensare alla mente come qualcosa dentro di te non ti aiuterà. Meglio pensare alla tua mente come qualcosa fuori di te.
Meglio pensare che la tua mente sia la somma delle tue azioni, emozioni e sentimenti nel tempo e nello spazio. Meglio che tu la geolocalizzi.
Piuttosto di localizzarla in alcune specifiche aree cerebrali, meglio che tu la ricerchi nella tua agenda: in giorni, orari e luoghi precisi. Questa è una teoria della mente che la descrive come fatta di interazioni (con te stesso, con gli altri e con il contesto). È decisamente più utile al cambiamento.

- Avere a che fare con l’idea di te stesso mentre sei in ritiro dentro a una caverna è mettersi a fantasticare su generalizzazioni poco utili in chiave pratica. Avere a che fare con te stesso quando domani mattina alle 7:12 stai iniziando la tua giornata è avere l’occasione di sentire e provare a cambiare qualcosa.
- Pensare che una specifica area cerebrale stia influenzando la tua vita è un’idea che dovrebbe subito portarti ad una visita da un neurologo. Pensare che il modo in cui hai parlato ai tuoi collaboratori ieri pomeriggio non sia stato efficace, invece, ti indirizzerà ad analizzare la situazione e a prendere delle iniziative per la riunione della settimana prossima.
- Ritenere che ti manchi l’autostima, ti metterà in attesa che qualcuno o qualcosa colmerà quel vuoto (forse travasando al tuo interno qualche litro di autostima plus).
Riassunto e utilità
- Sempre parafrasando Kurt Lewin, vuoi conoscere te stesso? Allora prova a cambiarti! Si impara facendo e, quindi, imparerai più cose su di te sperimentandoti. Usa i momenti di riflessione per capire cosa nella realtà concreta ha funzionato e cosa no, ma poi agisci.
- Il cervello è necessario, ma è anche molto complicato. Lasciamolo agli esperti. Se ti affascinano le neuroscienze, abbi anche l’umiltà di constatare come tu non sia in grado di applicarle alla tua vita concreta: leggi e studiale come faresti per l’astronomia, una materia stupenda che è d’aiuto all’umanità se maneggiata da esperti astronomi, ma che tu solo raramente saprai applicare alla tua vita quotidiana.
- La mente non è nulla di concreto: è una definizione. Pensala come fosse fuori di te, nel mondo e tra le persone, e prova a cambiarla un’interazione alla volta.
Note
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[1] Attenzione: in psicologia cognitiva con “teoria della mente” ci si riferisce alla capacità di rappresentare gli stati mentali propri e altrui e di prevedere il comportamento associato. Qui, invece, uso il termine con senso più generico.
[2] A business man once stated that there is nothing so practical as a good theory (in Lewin, K., 1951. Field theory in social science: Selected theoretical papers, D. Cartwright, Ed., New York, NY: Harper & Row).
[3] Il fascino pericoloso delle spiegazioni neuroscientifiche. Cfr. D. Skolnick Weisberg, F. Keil, J. Goodstein, E. Rawson e J.R. Gray, The seductive allure of neuroscience explanation, in «Journal of Cognitive Neuroscience», 20, 2008, pp. 470-477.
[4] Questo passaggio è importante perché spesso formatori o consulenti usano strumenti senza sapere la loro origine e mescolano tra loro cose che non possono coesistere generando confusione o danni: un po’ come se qualcuno per sistemarti un testo scritto su word, usasse il bianchetto sullo schermo perché sulle istruzioni del bianchetto c’è scritto di usarlo per correggere i testi, non capendo che si tratta di contesti differenti. Oppure come se qualcuno volesse utilizzare le stringhe di un codice di programmazione in un altro completamente diverso. La teoria della mente è come una sorta di sistema operativo (Windows, IOS, Linux, Android…) non regge se ci installi cose che non prevede.