Perché tutti si dimenticano della sollecitudine?

È l’ultima voce del quadro dell’intelligenza di Goleman, ma è quella che ne indirizza maggiormente il significato.

Quando si studia e si cerca di sviluppare la propria intelligenza emotiva e sociale si fa pratica principalmente delle abilità di consapevolezza e di influenzamento. Si tralascia perciò la sollecitudine, ovvero la nostra capacità di agire per aiutare gli altri.

Il rischio è quello di scimmiottare narcisisti sociopatici senza, tra l’altro, riuscire a raggiungere i loro successi. E il rischio si fa ancor più grave quando dall’ambito personale passiamo a quello organizzativo. Vediamo perché.

(Se ti va puoi vederti e ascoltarti il video: il tono è più leggero ma il senso è quello)

Il quadro dell’intelligenza emotiva e sociale di Daniel Goleman

Alla fine degli anni 90 l’ex psicologo di Harvard Daniel Goleman pubblica due libri presto diventati best seller.

Il primo e più famoso è “Intelligenza emotiva” e racchiude le principali ricerche scientifiche dell’epoca in ambito delle emozioni.

Qualche anno dopo Goleman pubblica “Intelligenza sociale”, libro che continua e completa il lavoro del precedente giungendo allo schema che vi riporto poco sotto.

A Goleman, sebbene non “inventi” i termini di intelligenza emotiva e sociale, va attribuito il merito di averli diffusi e aver alimentato un filone culturale in opposizione al classico e imperante quoziente intellettivo (Q.I.).

Per lui, come per Howard Gardner, la funzione cognitiva principale e più profittevole per l’essere umano è quella di costruire relazioni funzionali con se stessi e con gli altri (ne ho già scritto qui).

Intelligenza emotiva (I.E.)

L’intelligenza emotiva per Daniel Goleman è composta da più sottocategorie, tutte riconducibili a due dimensioni principali:

  1. La consapevolezza delle proprie emozioni, cioè la capacità di sentire e capire che emozione sto provando.
  2. La gestione delle proprie emozioni, cioè l’abilità di modulare il mio stato emotivo.

Tale intelligenza necessita di una capacità di comprensione del contesto in cui poi modulare le proprie emozioni in base agli scopi e ai significati attribuiti.

Quando il contesto è quello relazionale, l’intelligenza emotiva si affianca a quella sociale.

Intelligenza sociale (I.S.)

L’intelligenza sociale è una meta-funzione cognitiva che permette di creare e condurre relazioni proficue. Come facilmente intuibile, l’intelligenza sociale ha numerose interazioni con i processi evolutivi della specie umana e lo sviluppo del linguaggio. Ma qui ci interessa maggiormente contestualizzarla nella quotidianità: i dialoghi e le relazioni che abbiamo nella vita privata e lavorativa.

Come per l’intelligenza emotiva, anche per l’intelligenza sociale Daniel Goleman propone due dimensioni, la prima relativa alla consapevolezza del contesto e dell’altro e la seconda alla gestione della relazione.

Ciascuna di queste due dimensioni ha poi specifiche competenze e funzioni, l’ultima dell’elenco è la sollecitudine:

  1. Consapevolezza sociale
    1. Empatia primaria
    2. Sintonia
    3. Attenzione empatica
    4. Cognizione sociale
  2. Abilità sociale (gestione della relazione)
    1. Sincronia
    2. Presentazione di sé
    3. Influenza
    4. Sollecitudine

L’intelligenza sociale: manipolatori, narcisisti e sociopatici

Inutile negarlo: la sociopatia paga.

Per quanto si cerchi di diffondere un’etica nel mondo aziendale, la realtà è che la cultura consumistica detta le regole del contesto. E in un tale contesto (che giudico sbagliato, sia chiaro) è facile che a fare carriera siano persone dotate di un’elevata intelligenza sociale, ma che pecchino in sollecitudine.

I cosiddetti leader spesso hanno grandi abilità di comprendere gli altri e di saperli influenzare ma, molto spesso lo fanno a proprio vantaggio.

Ne hanno parlato sia lo psicoanalista e antropologo Maccoby[1][2] che più recentemente i colleghi Landay e Harms dell’università dell’Alabama[3].

Certo, non è sempre così, per fortuna esistono molti esempi di leadership umana. Ma non voglio far passare un contenuto che ritengo giusto benché non sia veritiero. Niente fuffa: essere umani in azienda non produce un vantaggio rispetto ai competitor.

In azienda essere empatici e solleciti non è un vantaggio competitivo

Vendere alle aziende corsi di collaborazione e buone maniere che promettono di aumentare il fatturato è un controsenso.

Non credo che sia questa la chiave per promuovere relazioni di cooperazione e collaborazione all’interno di un’organizzazione.

Credo sia meglio cambiare decisamente paradigma: non mi comporto bene con i colleghi e i collaboratori per un interesse economico, mi comporto bene con gli altri perché ritengo che sia più bello vivere così.

Ritengo che il luogo di lavoro sia un contesto in cui passo gran parte del mio tempo e desidero che sia accogliente e motivante, senza che debba pugnalare alle spalle qualcuno.

Si è solleciti perché è umano esserlo.

Rimane ovvio che si lavora tutti assieme in un’azienda per ricavarne il maggior profitto. Ma è altrettanto ovvio che il profitto non sia solo un fattore economico.

Ed è altrettanto ovvio che non si vive solo per guadagnare e che il fine giustifica i mezzi a patto che i mezzi non rovinino i fondamenti della mia persona.

Leadership narcisistiche in contesti competitivi

Come scrive Gregory Bateson, antropologo ed esperto di complessità

«I contesti competitivi […] riducono inevitabilmente la complessa gamma dei valori a termini semplicissimi e addirittura lineari e monotoni.»

Gregory Bateson – “Verso un’ecologia della mente”

Ciò significa che in un contesto competitivo come quello aziendale le interazioni portano a una focalizzazione sull’interesse economico (o di potere o più direttamente di carriera), sia all’intero della stessa organizzazione, sia nel mercato in cui l’azienda compete: la gamma dei valori, tra cui sicuramente all’inizio ci sono quelli “umani”, si riduce a un semplice segno positivo sull’ultimo rigo del bilancio annuale.

Questa cecità alla collaborazione e all’aiuto reciproco ostacola la diffusione di responsabilità negli obiettivi collettivi e organizzativi.

La dimensione narcisistica e semplicistica della leadership fa funzionare l’organizzazione attraverso due leve psicologiche:

  1. L’ammirazione: quasi come avviene in una setta, i membri dell’organizzazione osannano il leader e, per quanto lo considerino irraggiungibile, vogliono essere come lui
  2. La paura: le persone temono il giudizio del gruppo che è, ripeto, focalizzato su una morale ridotta a pochissimi valori incarnati dal leader. Il terrore di essere emancipati o allontanati aumenta la coesione interna.

La sollecitudine: quando prendersi cura degli altri torna utile in tempi di crisi

Ci sono ovviamente alcune conseguenze negative che si fanno tanto più evidenti tanto più il clima diventa di incertezza e le variabili complesse fanno vacillare l’identità semplicistica del capo.

Le persone abituate a seguire più che a pensare e a ripetere i mantra del leader piuttosto che contribuire alle scelte, abbandoneranno la nave:

  • I manager focalizzeranno il proprio lavoro sapendo che ogni tre anni cambieranno azienda e il loro principale interesse sarà quello di contrattare uno stipendio migliore alla prossima occasione.
  • I collaboratori cercheranno di non impegnarsi in attività in cui correre il rischio di venire poi accusati di errori e, quindi, penalizzati. Oppure, non sentendosi supportati dai propri responsabili, non si adopereranno in azioni che esulino dal loro contratto
  • Gli imprenditori, in balìa di un mercato rapido e rapace, baderanno sempre più al medio-breve termine, riducendo investimenti e riducendo la crescita di una comunità aziendale.

Tutto ciò potrebbe essere ribaltato dalla sollecitudine: l’ultima delle voci del quadro dell’Intelligenza proposto da Daniel Goleman.

È vero, tecnicamente parlando la teoria di Goleman è ancora riduzionista, ma il costrutto della sollecitudine, in cui l’autore fa confluire le azioni della compassione e della cooperazione, apre la possibilità di un’azione etica complessa: interagire per un bene comune in senso più ecologico.

Morale della storia

Se ti lamenti di essere “troppo buono” o che ti manca l’autostima.

Se ti capita di invidiare la cattiveria e la faccia tosta di persone di successo.

Se ritieni che la tua sollecitudine ad aiutare gli altri sia una condanna perché rammenti più le volte in cui ti si è ritorta contro piuttosto di quelle in cui ti è tornata utile…

Allora stai commettendo tre gravi errori:

  1. Le persone di successo narcisiste e manipolatorie, pur peccando di una buona sollecitudine, hanno un’elevata Intelligenza Sociale soprattutto in alcune funzioni e abilità;
  2. Le competenze si allenano e si sviluppano, difficilmente si eliminano, quindi cerca di sviluppare tutte le abilità dell’Intelligenza Sociale, in modo da migliorare l’efficacia della tua sollecitudine (es: valutare meglio a chi e come offri il tuo aiuto)
  3. Se, superati i vent’anni, non sei sociopatico o narcisista è difficile che tu lo diventerai scimmiottando la superbia altrui. Cerca uno stile che si avvicini maggiormente al tuo modo di essere e poi amplialo.
  4. Solitamente le persone che si definiscono “troppo buone” non peccano di eccessiva sollecitudine, ma di eccessivo rancore. L’invidia è una brutta bestia. Liberate quanto prima. Trova un contesto in cui esprimerti al meglio. È una tua responsabilità.

E se hai bisogno di un aiuto per costruire una professione o una leadership che ti rappresenti, scrivimi.


[1] https://hbr.org/2004/01/narcissistic-leaders-the-incredible-pros-the-inevitable-cons

[2] https://www.cnbc.com/2015/06/04/facebook-tesla-ceos-examples-of-productive-narcissism.html

[3] https://www.researchgate.net/publication/327039686_Shall_We_Serve_the_Dark_Lords_A_Meta-Analytic_Review_of_Psychopathy_and_Leadership

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